mercoledì 27 aprile 2016

Il Vesuvio e gli allarmi che ammorbano...


 
“Rischio Vesuvio: un po’ come vivere nella giungla
malarica senza chinino…”   di MalKo

Non pochi articolisti e giornalisti denunciano un eccesso di allarmismo che investe e dicono infastidisce il vivere quotidiano della popolazione vesuviana, che giorno dopo giorno infila il proprio tempo all’ombra del maestoso Vesuvio. C’è da dire che il pericolo incombente per chi affolla la zona rossa Vesuvio, purtroppo non è di quelli che si possono sottovalutare e non è neanche un pericolo che si può prevedere con certezza.

Gli scienziati, soprattutto quelli che ricoprono una veste istituzionale, si affannano a precisare che l’eruzione può essere prevista anche a distanza di mesi o anni prima.  In realtà si riescono a individuare sul nascere quei segnali che indicano una variazione dello stato del vulcano, che può essere indice di riassestamento degli equilibri interni, una vivacità geologica o un dinamismo magmatico foriero di una eruzione. Il bradisismo degli anni 70' e ’80 insegna…

Anche la più sofisticata e innovativa e sensibile strumentazione scientifica quindi, non ci darà una previsione dell’eruzione, ma solo un veloce allarme sui cambiamenti geochimici e geofisici del vulcano, che poi bisognerà con grande responsabilità interpretare in un tempo imprecisabile. Il fenomeno eruttivo pure con tutti i segnali prodromi dell’eruzione potrebbe alla fine non manifestarsi, oppure insorgere velocemente, e ancora eruttare inaspettatamente in un momento di stasi con i precursori strumentali al minimo, come successe col Mount St. Helens.

Ad essere precisi, solo l’eruzione ci darebbe la certezza dell’eruzione… Ovviamente una siffatta e lapalissiana condizione darebbe zero tempo a disposizione per provvedere all’evacuazione massiva di circa un milione di persone. Allora, lavorando a ritroso dello zero, dobbiamo accettare il compromesso della probabilità eruttiva che potrà annoverare anche una falso allarme o un mancato allarme. In entrambi i casi sarebbe un fallimento della previsione vulcanica, ma il primo caso è senz’altro preferibile al secondo. La popolazione esposta deve comprendere questi limiti che non sono nostrani ma assolutamente internazionali, visto che si ha a che fare con il mondo del sottosuolo che a tutt’oggi rappresenta un campo con non poche incognite.

In una condizione come quella vesuviana di notevole incertezza e pericolosità, risulta difficile non collocare le caratteristiche dell’area alla base dell’organizzazione sociale, così come riesce difficile comprendere come mai a fronte di queste premesse non si siano avviate negli anni politiche di prevenzioni e di mitigazione del rischio, capaci di agire su più fronti per evitare la insostenibile vulnerabilità di un comprensorio vulcanico oggi ad altissimo rischio.

Diciamo da tempo che nel vesuviano lo sviluppo sostenibile doveva assolutamente tenere in debito conto le esigenze del piano di evacuazione che rimane un compromesso all’incapacità umana, e non che il piano di evacuazione dovesse inseguire e conformarsi e adattarsi a un territorio che nel campo dell’edilizia e fino al 2003 è stato senza regole espandendosi e saturando totalmente i comuni dormitori che fungono da separazione tra la città di Napoli e il Vesuvio, ma senza zone franche...

Se si decide di vivere in mezzo all’acqua magari per sfuggire alle belve, dobbiamo necessariamente assicurarci che non ci siano coccodrilli e costruire quindi le palafitte imparando velocemente a nuotare come primo elemento di sopravvivenza individuale.

Se decidiamo di vivere sulla groppa di un vulcano esplosivo, le nostre case devono essere modellate offrendo spigoli vivi all’indirizzo del monte e tetti spioventi magari ad arco tondo quale difesa passiva degli edifici eventualmente risparmiati dalle colate piroclastiche. Occorre poi imparare a raggiungere velocemente l'arteria stradale che dovrà portarci fuori dal perimetro d’influenza vulcanica in direzione di una regione che avrà il compito per qualche anno di sostenerci.

Allora è il rischio che ci governa? Certamente sì! Ovvero che dovrebbe governarci… e infatti  nel vesuviano gli allarmi sono plateali e costanti  per la ragione inversa… Cioè non essendoci nessuna forma di governo e di organizzazione del territorio che vada nella direzione della difendibilità degli uomini e delle donne dal rischio vulcanico, qualsiasi monito o notizia ad oggetto il Vesuvio, viene automaticamente resa drammatica, comica, falsa, apprensiva, interessante, inutile, seria e altro a seconda dell’orecchio in cui si ficca per uscirsene subito dopo dall’altro lato a prescindere dal recettore.
La società partenopea fonda la sua esistenza sul fatalismo e sulla filosofia spicciola del basta che c’è il mare e basta che c’è il Sole… Il vivere l’oggi senza cura del domani è un delitto contro la persona, innanzitutto perché potremmo accettare una siffatta filosofia solo in senso strettamente personale e solo in assenza di generazioni future che non possono difendersi dalle nostre scelleratezze o scegliere direttamente la qualità della loro vita a venire. I posteri ricordiamocelo, avranno in dote esattamente la società che noi gli lasceremo: al momento un po’ corrotta, un po’ camorristica e un po’ pericolosa con le istituzioni che girano al minimo sindacale…

Se il territorio vesuviano fosse stato oggetto di misure preventive e di tutela efficaci e aggiungo invisibili, che non avrebbero pesato psicologicamente sulle genti, ognuno poteva godersi la vita e le beltà che questo territorio contiene, senza l’assillo del pericolo incombente, grazie alla certezza morale di aver fatto il possibile per offrire maggiore sicurezza a noi e agli altri che verranno dopo. Il problema allora non è la notizia ad allarmare, ma il contesto in cui questa notizia grava e cade.

Siete andati qualche volta al cinema vero? Davanti a voi c’è la famiglia al completo serena che si sbellica dalle risate ingurgitando manate di pop corn e patatine annaffiate da bevande zuccherine. Quella famiglia non sa che le sedie sono fisse al pavimento per motivi di sicurezza; che dopo un certo numero di sedie ci sono  corridoio per defluire; che i tessuti di sedie e tende sono ignifughi; che i percorsi di uscita sono di una certa larghezza e tracciati da punti luce bassi e auto alimentati e che in alto ci sono le lampade di emergenza che segnano con pittogrammi verdi altrettante uscite di emergenza in numero sufficiente alla massima platea prevista; che ogni porta è dotata di maniglione antipanico ed ha il verso d’apertura nel senso dell’esodo e sulla strada all’altezza delle porte c’è il divieto di sosta e di fermata; che il tetto della sala è provvisto di un congegno che scatta in caso d’incendio per evacuare i fumi; e poi una serie di estintori sono collocati nei punti strategici in prossimità delle uscite… ecc.

In altre parole, senza avvedersene quella famiglia si sta godendo uno spettacolo con le massime garanzie strutturali e infrastrutturali possibili, offerteci dai nostri regolamenti di sicurezza. Perché non riusciamo a fare altrettanto con il territorio vesuviano?

Con un altro esempio si spera di inquadrare il problema. In uno dei comuni vesuviani non moltissimo tempo fa ci fu una specie di sciopero soprattutto delle mamme perché una compagnia telefonica aveva installato una stazione radio base a servizio dei cellulari non molto lontano da una scuola. Almeno in quel periodo questi ponti radio venivano visti come produttori di onde elettromagnetiche capaci di generare malattie soprattutto nei bambini. Possibilità, pare, non ancora dimostrata…

Perché le mamme non fanno manifestazioni di piazza contro l’inerzia che regola il processo di sicurezza a fronte del rischio Vesuvio? Perché nel caso del ponte radio la lotta serviva a spostare l’applique elettronico altrove, cioè il pericolo era allontanabile. Il Vesuvio invece non ha le ruote. E’ inamovibile; e quindi alla fine qualsiasi manifestazione cozzerebbe ed evidenzierebbe la necessità di un’operazione inversa, come le regole della prevenzione impongono, cioè spostare la popolazione per azzerare il rischio. Quindi nessuno protesta per il piano che non c’è, perché la quiescenza può durare per moltissimi anni ancora, e in assenza di segnali di pericolo si abbozza, si tergiversa e si continua a dimorare, magari con qualche ansia in più ma non si protesta…

Diciamo che la volontà popolare tende irrinunciabilmente alla stabilità residenziale nell’area a rischio Vesuvio. Neanche gli incentivi economici hanno prodotto risultati concreti: nessun cittadino vuole lasciare questi territori scuri di lapillo. La politica poi, asseconda questa volontà delle genti rilasciando ipocritamente comunicati stampa che il più delle volte girano da anni e a vuoto intorno ai piani d’emergenza sempre in corso d’opera e sempre da aggiornare, come la tela di Penelope. Il territorio vesuviano è pieno di proci che consumano non vivande ma territorio, amplificando il rischio che già oggi come scrivono alcuni media nazionali e mondiali è insostenibile. All’interno della zona rossa, settore rimpicciolito dalla scienza e poi ingrandito dalla politica per crearsi un alibi, occorrerebbe l'infiltrazione del cavallo di Troia dal cui ventre e in pieno giorno dovrebbe grondare sotto molteplici forme tutta la legalità possibile…

Il governo del fare dovrebbe, oltre allo sblocca Italia e al piano economico d’investimenti in Campania, preparare una sorta di “sblocca Vesuvio”, comprendente non solo misure contenitive dell’edilizia regolare e abusiva, ma anche strategie di riordino territoriale e impulsi atti a svegliare le imbambolate istituzioni vittime dell’accidia operativa. Chi lo dice? I vergognosi numeri sull’abusivismo edilizio…

Occorre poi una strategia complessiva sulla viabilità che diventi radiale con nuove opere in modo da saldare il famoso anello circumvesuviano con l’autostrada Salerno – Caserta. Si metta intanto mano a un piano di evacuazione realistico, che sia qualcosa di ben diverso da un piano di mobilità da vacanze intelligenti. Meditate sulle strategie evacuative, meditate…

I vesuviani a farla breve ovviamente non vivono proprio benissimo perché c’è la recondita consapevolezza che quel monte che li sovrasta è capace di eruzioni fenomenali. D’altra parte hanno anche la certezza di quello che potrebbe succedere, perché sanno che il territorio dove vivono è senza difese e programmi evacuativi, e ancora senza strutture che velocizzino la mobilità su ruote in una condizione di traffico che all’emergenza toccherebbe punte ben superiori a qualsiasi picco massimo conosciuto. La larghezza attuale delle strade, corrisponde alle esigenze di scorrimento veicolare da anni sessanta…

Concludendo, il problema delle notizie ad oggetto il Vesuvio che allarmano o ammorbano i cittadini oltremisura, non sono da ricercarsi nella gravità delle note giornalistiche che si diffondono, bensì nell’assurdo territorio in cui queste notizie ricadono. Dibattere di malaria nelle paludi tropicali con il chinino in tasca, è cosa ben diversa dal non averlo…


mercoledì 30 marzo 2016

Referendum trivelle costiere 17 aprile 2016

 
17 aprile 2016: referendum sulle trivelle marine costiere… 
di MalKo
Da qualche anno l'eldorado energetico italiano sembra svilupparsi attraverso le trivellazioni in mare e in terra alla ricerca di idrocarburi, secondo regole e schemi che ricordano la deregulation. Ne abbiamo già parlato trattando il geotermico, a iniziare dalle ipotesi di trapanare e sfruttare le acque calde insite nei contrafforti del vulcano Marsili, lì nelle profondità tirreniche, nonostante il pericolo tsunami dettato dai versanti franosi e scoscesi dell’imponente seamount. Il progetto in assenza di chiarimenti è stato respinto…


Poi è saltato fuori il Deep Drilling Project, un progetto internazionale di trivellazione profonda in area calderica metropolitana (Campi Flegrei - Bagnoli), dal doppio utilizzo, scientifico e prospettico sul geotermico. Tra proteste e dubbi sulla sicurezza, lo scalpello litosferico si è fermata a 500 metri di profondità contro i 4000 previsti.

Subito dopo ci siamo dovuti interessare ancora dei Campi Flegrei e poi Ischia, perché su questi suoli ballerini ancorché vulcanici, i progetti di geotermia presentati al Ministero dell’Ambiente per le necessarie autorizzazioni (VIA), sono ben tre: Cuma, Scarfoglio  e Serrara Fontana.

Il progetto Cuma è stato fortunatamente archiviato a tutto vantaggio dei luoghi archeologici dominio indiscusso della famosa Sibilla Cumana, mentre Scarfoglio e Serrara Fontana sono ancora in una fase di valutazione ministeriale. Teoricamente dovrebbero essere destinatari di una decisione negativa perché entrambe le progettazioni comportano la trivellazioni di suoli vulcanici pregni di fluidi e vapori caldi. Nella zona di Scarfoglio, corrispondente alla parte orientale della Solfatara di Pozzuoli, grava anche il bradisismo e una spiccata fenomenologia di vulcanesimo. Nella zona ischitana di Serrara Fontana invece, il sottosuolo è ancora un’incognita, con manifestazioni superficiali di acqua calde minerali particolarmente gradite e sfruttate dalle locali strutture termali della vicina municipalità di Forio, le cui maestranze  temono modificazioni della circolazione delle acque termali a causa delle paventate perforazioni. In tutti i casi comunque, le strategie operative delle centrali prevedono la reiniezione dei fluidi prelevati direttamente nel sottosuolo, in modo da ridurre le ipotesi di inquinamento dovute alle acque calde profonde per niente innocue dal punto di vista della nocività, anche se tale tecnica potrebbe essere portatrice di sismicità indotta.

Il problema delle trivellazione sembra contraddistinguere gli ultimi anni della politica italiana, particolarmente sbilanciata sul bigliettone verde, le banche e il business… Eppure non è difficile capire che l’uomo ha bisogna di aria, acqua e suolo: i suoi elementi naturali, quelli che gli hanno dato la vita e di cui ha bisogno per vivere. Sembrerà strano, ma le trivellazioni cozzano e incidono in termini ambientali proprio sull’aria, sull’acqua e i suoli…

Queste  modeste risorse di gas e petrolio che abbiamo nel nostro sottosuolo, sia in mare che in terra, e che non ci sconvolgono l'esistenza, converrebbe forse lasciarle esattamente dove sono, e garantirci un potenziale strategico per noi o meglio ancora per le generazioni future che magari vi accederebbero all’occorrenza con tecnologie maggiormente garantiste per l'ambiente, soprattutto in un momento di penuria mondiale dei combustibili fossili qualora non avessimo raggiunto l’indipendenza energetica con risorse diverse e meno inquinanti.

Le perforazioni contengono non pochi elementi di rischio perché avvengono in un ambiente, la crosta terrestre, non particolarmente noto o facilmente sondabile. Oggi, con le quantità di petrolio e gas che si immettono sul mercato, non riusciamo a giustificare interamente l'accettazione del rischio trivellazione, almeno in determinati luoghi, come il mare, soprattutto se trattasi di mari chiusi come il Mediterraneo.


Ve la immaginate una fuoriuscita di greggio con chiazze spinte dai venti meridionali in direzione di Venezia? Il mare nel suo insieme non ha linee di demarcazioni o barriere fisiche, e i venti spirano e muovono tutto ciò che galleggia... Da qui la necessità di una grande conferenza dei Paesi che affacciano sul Mediterraneo. Dalla salvaguardia del mare nostrum infatti, dipende più che mai la nostra e l'altrui qualità della vita...

Il referendum che riguarda le attività di trivellazione in mare, all’interno delle 12 miglia marine dalla costa, non è il massimo sull’argomento in termini di autodeterminazione di un popolo, ma è comunque un inizio interessante soprattutto per il coinvolgimento di non poche amministrazioni regionali.

Il quesito riguarda l’abrogazione della norma introdotta con l'ultima legge di stabilità, che consente alle società petrolifere già titolari di concessioni estrattive (non se ne rilasciano di nuove), di emungere idrocarburi all’interno delle acque territoriali  senza limiti di durata che possono così protrarsi fino all’esaurimento del giacimento.

Il quesito proposto dal referendum popolare riguarda appunto quest’ultimo aspetto, cioè viene chiesto al cittadino se vuole che le estrazioni di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa debbano terminare alla data di scadenza della concessione o possono continuare  fino all’esaurimento del giacimento.


Praticamente vota chi vuole che si sbaracchino le piattaforme alla data di scadenza della concessione. Voterà No chi vuole che l’estrazione di idrocarburi continui fino a quando non si esaurisca la vena produttiva di gas e petrolio dal sottosuolo marino senza scadenze prefissate.


Per quanto ci riguarda ci vien da dire immediatamente che se l’ambiente avesse avuto un peso diverso con una netta separazione dall'affarismo economico che sembra la regola che fa girare il mondo, non si sarebbero mai consentite la trivellazione entro le 12 miglia dalla costa. Di conseguenza, riteniamo doveroso che le piattaforma che già operano all’interno delle acque territoriali, allo scadere della licenza estrattiva salpino le ancore e vadano via, perché prima ancora della salvaguardia dei posti di lavoro occorre salvaguardare la salute umana e l’ambiente in cui viviamo perché non ne abbiamo altri.


Il problema attuale che riguarda le popolazioni del bacino Mediterraneo è proprio quello delle trivellazioni, perché il rischio inquinamento è insito in quest'attività, in quanto si andrebbe a bucare il sottosuolo con tutte le sue incognite, in un contesto marino non oceanico che riesce a rimescolare a stento le sue acque dallo stretto di Gibilterra in tempi secolari.

Il capitano Jacques Yves Cousteau, esploratore e navigatore e oceanografo e grande regista di documentari sul mondo sommerso, diceva sempre che il Mediterraneo bisogna custodirlo per bene, perché ha una spiccata fragilità ecologica. E’ un mare chiuso dicevamo, anche se su queste acque ha navigato la civiltà del mondo.

Al referendum popolare bisogna intanto partecipare perché è democrazia diretta a cui non possiamo rinunciare soprattutto in questo momento particolare dove la nostra governement  tra lobby e furbetti risulta particolarmente opaca. Non abbiamo un altro Mediterraneo: il mare è di tutti e quindi tutti hanno l’obbligo morale di custodirlo, in questo caso attraverso una forma di pubblica partecipazione che si chiama referendum. Subito dopo bisognerebbe aprire un grande dibattito politico che metta al centro la custodia dell’ambiente profilando poi al popolo sovrano di quale energia abbiamo bisogno per ridurre un inquinamento che ci dicono mondiale. Venga allora fatto un piano energetico a medio e lungo termine e lo si pubblicizzi...

Noi siamo convinti che bisogna votare soprattutto perché il problema trivelle è delicato, molto delicato e dicevamo di alta politica che non c'è… togliendo le trivelle entro la fascia delle 12 miglia dalla costa, tra l'altro non abbiamo rimosso il rischio inquinamento, abbiamo semplicemente creato una no triv zone futura, confinante con altre fasce in mare e in terra dove le trivelle in assenza di una diversa legiferazione e visione del mondo, popoleranno tutti gli ambienti marini o terrestri che siano, ghiacci polari compresi. Se tu non decidi…decideranno altri al tuo posto…