sabato 14 marzo 2020

Rischio Vesuvio e Rischio Coronavirus: di MalKo



Il Vesuvio è un apparato vulcanico che ha la capacità di eruttare in forme diverse, come quella effusiva, esplosiva o anche mista secondo intervalli poco quantificabili. Ovviamente nel primo caso la produzione e quindi lo scorrere della lava non genera pericolo per le popolazioni: è lenta nel suo incedere e si ha tutto il tempo necessario per allontanarsi. Nelle eruzioni esplosive pliniane e sub pliniane invece, la pericolosità per le genti esposte è veramente alta a causa della formazione delle colate piroclastiche.

Questo fenomeno particolarmente distruttivo, deriva in genere dal collasso della colonna eruttiva che, rovinando sui fianchi del vulcano da notevole altezza, forma delle valanghe di materiale piroclastico decisamente ardente (circa 500° C.). Questi ammassi vorticosi che scorrono e rotolano dal pendio montuoso a velocità molto elevata, acquistano energia cinetica capace di spazzare via qualsiasi ostacolo incontrino sul proprio cammino per non pochi chilometri.

Le colate piroclastiche distrussero Pompei nel 79 d.C. e la pioggia di cenere e lapilli seppellì la ridente cittadina romana che fu poi riscoperta a tratti e solo nel 1748. In questi luoghi ma anche ad Ercolano, sono stati ritrovati scheletri di uomini e animali in alcuni casi con i crani esplosi letteralmente per effetto dell’evaporazione repentina della massa biologica.

Alcune tecniche consistenti nel colare gesso nei vuoti rinvenuti negli ammassi di cenere e lapilli del pompeiano, hanno restituite forme umane (vedi copertina) nella loro interezza espressiva nel momento della morte. Fisionomie che danno ancora oggi il polso della tragedia vulcanica che si consumò quasi duemila anni fa, suscitando un sentimento di pìetas nei visitatori del parco archeologico di Pompei.

La storia geologica dell’area vulcanica vesuviana parte da molto lontano, mentre quella che caratterizza il complesso del Somma – Vesuvio è ascrivibile a circa 25.000 anni fa. 
Cosa sia avvenuto negli ultimi 20.000 anni ce lo dice questa scaletta pubblicata sul sito dell’Osservatorio Vesuviano. Come si vede l’ultima eruzione pliniana è quella di Pompei nel 79 d.C. mentre la più recente sub pliniana si ebbe nel 1631. Nel 1906 la più vivace eruzione mista del secolo, e nel 1944 l’ultima stromboliana che ha riportato l’apparato vulcanico del Vesuvio in una condizione di quiescenza che dura tutt’oggi.


La prossima eruzione non è possibile datarla, così com’è impossibile stabilire l’intensità eruttiva che la caratterizzerà.  Di fronte ai limiti della previsione dell’evento vulcanico, per evitare una catastrofe occorrerebbe dare ampio spazio alla prevenzione del rischio vulcanico almeno fino a quando la previsione non acquisirà valore deterministico. Occorrerebbero allora interventi strutturali e non strutturali, capaci di mitigare le possibili conseguenze del fenomeno eruttivo che un giorno si manifesterà e che sarà pieno di incognite. 

La logica avrebbe voluto che si fosse adottato come riferimento per i piani d’emergenza un’eruzione pliniana, che è la massima intensità conosciuta, per dare un limite perimetrico garantista alla zona rossa da evacuare 
all’occorrenza e preventivamente. La protezione civile ha preferito assumere un’eruzione intermedia come massimo stile eruttivo futuribile, e quindi la zona rossa risultando più piccola genera qualche apprensione in più, di contro offrendo facilitazioni alla stesura dei piani di evacuazione, più contenuti territorialmente, e che in ogni caso tardano a completarsi.

Nell’attualità il rischio di una catastrofe vulcanica è l’ultimo dei problemi nazionali, perché l’emergenza epidemiologica causata dal coronavirus covid 19 in tutte le regioni italiane, ha catturato totalmente l’attenzione istituzionale e popolare.

La cosa che turba del pericolo epidemiologico, sono le dimensioni impalpabili e invisibili del virus, ma anche gli effetti che determina sul soggetto contaminato che sono molto variabili da individuo a individuo in ragione della carica virale e dalle condizione di salute di base: ergo più a rischio gli anziani. Se contagiati si può essere totalmente asintomatici o anche gravemente ammalati. Il numero dei sintomatici guariti è alto e la mortalità è bassa, ma non tanto da rassicurare chicchessia…quì i numeri.

Il coronavirus in ogni caso è contagioso abbastanza da poter mettere in crisi il sistema di accoglienza ospedaliero nazionale che non ha risorse illimitate nel campo della terapia intensiva, sia in termini di personale specializzato che di posti letto con tecnologie dedicate. Quindi, a fronte di ristrettezze di postazioni, per i numeri in gioco le politiche di contenimento della diffusione del virus diventano una assoluta necessità per mantenere almeno un circolo virtuoso di alternanza, che garantisca un saldo di pareggio tra ammalati bisognosi della terapia intensiva e i guariti o gli stabilizzati che lasciano il posto ad altri.


L’allarme è altissimo perché non ci sono cure e vaccini specifici in un contesto come dicevamo di carenza di apparecchiature per l'aiuto respiratorio.  Addirittura si biascica tra smentite e qualche conferma, che si potrebbe essere costretti se lievitano i numeri dei contagiati gravi, a mettere in discussione il diritto alla salute a favore dei giovani che hanno maggiori chance di guarigione e una maggiore aspettativa di vita rispetto ai vecchi che si avvicinano al declino. Qualche intervistato esprimeva con enfasi questo concetto da Dio, dimenticandosi che c’è sempre qualcuno più giovane di un altro a prescindere… Occorre poi dire che lungo lo stivale la qualità e la quantità dei servizi ospedalieri, ahimè e generalizzando, dipendono un po’ dalla latitudine con tutto quello che ne concerne in termini di quantificazione del rischio che a parità di virus aumenta...

Da un punto di vista tecnico, il rischio da coronavirus è alto perché gli effetti del microscopico ospite potenzialmente non cambiano in ragione della posizione geografica, tant'è che tutto il territorio nazionale è stato classificato come zona rossa onde limitare le attività, gli spostamenti e la vita sociale di gruppo perchè facilitano i contagi.


Il discorso è puramente analitico perché nel nostro mondo globalizzato esistono spostamenti e interazioni anche al di la dei confini nazionali che non possono essere off limits in entrata e uscita per lungo tempo. Quindi determinate azioni per contenere e confinare ai limiti dell’estinzione il dannoso virus, hanno valore solo se l’impegno è su scala continentale e quindi globale. Non è pensabile isolarsi da un sistema planetario aperto, e quindi bisogna tenere alta la guardia fino a quando nel mondo non si spegneranno tutti i focolai epidemici. Si teme molto l’Africa perché è un continente eterogeneo difficile da classificare, dove potrebbe essere molto difficile determinare finanche le zone rosse epidemiche, con una popolazione che per mille motivi tenterà di migrare per sfuggire alla fame, alle guerre e perché no, anche al democratico coronavirus, che in condizione di precariato igienico sanitario troverebbe terreno fertile per diffondersi.

Il rischio vulcanico è puntiforme, lo si conosce e la sua pericolosità è inversamente proporzionale alla distanza che sussiste dalla sorgente eruttiva. Questa caratteristica lo rende meno catastrofico del rischio epidemico. Il coronavirus è un potenziale pericolo che mantiene inalterata la sua capacità di generare sintomi a prescindere dal luogo geografico in cui si esprime. Per capire concetto e differenze, il Vesuvio possiamo rappresentarlo come un unico grande ordigno i cui effetti meccanici sono rapportati alla distanza di esposizione. Il coronavirus invece, è una sorta di campo minato dove tra i primi passi e gli ultimi, nonostante le differenze chilometriche, non c’è differenza in termini di pericolosità potenziale. Ovviamente e per rimanere nel solco di questo esempio, l’isolamento sociale aumenta le maglie libere del campo minato, e quindi diminuisce le possibilità di incappare nella mina virale i cui effetti in alcuni casi sono preoccupanti.

Nei comitati scientifici della commissione grandi rischi non sembra che sia stato previsto un rischio epidemiologico pandemico: c'è da scommettere che qualcosa cambierà per il futuro, e che nelle politiche di resilienza e sopravvivenza si contempleranno oltre alle variazioni e ai cambiamenti climatici, anche rischi rarissimi ma non alienabili…  

Quando sarà passato l’emergenza coronavirus, bisognerà riaprire con molto serietà il capitolo della sanità dimenticata che ha caratterizzato le politiche dell'ultimo decennio, per capire quali settori sono stati privilegiati economicamente in danno dei presupposti dell’articolo 32 della costituzione, che teoricamente prevede il diritto alla salute senza nessuna menzione sull'età dei bisognosi… La democrazia e i diritti non sono scontati in questa società del business, ma se i cittadini e i partiti politici e i movimenti d'opinione perdono la capacità di analisi e la forza di indignarsi, saremo alla mercé degli eventi troppo spesso valutati a monte secondo le regole dei costi benefici che hanno un senso solo in assenza di alternative. 

Le conclusioni sono che il rischio epidemico è superiore al rischio vulcanico innanzitutto perché il primo è sconosciuto mentre il secondo è noto pur se disatteso nelle soluzioni.
Il peggio che ci può capitare oggi? Un accavallamento tra emergenza epidemica e sismica o vulcanica. Soprattutto quella vulcanica che metterebbe in cammino centinaia di migliaia di persone pure su mezzi collettivi, senza neanche una utilissima mascherina che stentano ad ammettere che servirebbe ma non ce ne sono. L'equipe cinese sbarcata a Fiumicino indossava mascherine oronasali e ovviamente non perchè sono tutti contagiati...

ilriformista.it

venerdì 6 marzo 2020

Rischio Vesuvio al tempo del Coronavirus Covid 19... di MalKo



Le tipologie di rischi che comportano l’interessamento diretto del Dipartimento della Protezione Civile, comprendono quelli maggiormente noti come il rischio sismico, vulcanico, da maremoto, idrogeologico, da fenomeni meteorici intensi, da siccità dilagante o anche da incendi boschivi estesi. 

L'azione   del dipartimento della protezione civile può esplicarsi pure nell’ambito del rischio chimico, nucleare, radiologico, tecnologico, industriale, da trasporti ma anche ambientale, igienico-sanitario e ancora da rientro incontrollato di oggetti e detriti spaziali.
Il Dipartimento è preposto pure a interallacciarsi con la comunità europea qualora dovesse rendersi necessaria una risposta operativa comunitaria su larga scala e su richiesta degli stati membri in difficoltà. Come si vede una competenza veramente enorme e diversificata quella dipartimentale, che trovò la sua massima espansività funzionale a cavallo del governo Berlusconi che ampliò le competenze anche all'organizzazione dei grandi eventi.
Ovviamente il Dipartimento operativamente non ha risorse in termini di braccia, ma ha dalla sua la competenza di coordinamento delle istituzioni e dei servizi anche di volontariato che fanno parte del sistema operativo nazionale della protezione civile. Per esercitare al meglio questo compito, il dicastero dipartimentale usufruisce del consulto assicurato dalla commissione grandi rischi, nelle sue diramazioni per disciplina, anche se, le decisioni finali devono passare per il vaglio politico del presidente del consiglio che ha l’ultima parola sulle decisioni da prendere.
Le decisioni assunte in seno al comitato della protezione civile, organo collegiale presieduto dal capo dipartimento della Protezione Civile (art. 3 del dl 245/02 convertito nella legge 286/02), è formato dai rappresentanti delle componenti e delle strutture operative del Servizio Nazionale della Protezione Civile. Le determinazioni del comitato, si traducono poi in indicazioni operative per i servizi d’emergenza ma anche per quelli complementari e logistici.
Un altro elemento di non secondaria importanza che si verifica nelle calamità naturali e situazioni similari, è che alla dichiarazione dello stato di emergenza corrisponde spesso uno stanziamento immediato di risorse spendibili in modo molto più veloce rispetto all'ordinarietà degli appalti, grazie all'abbattimento delle zavorre burocratiche che ovviamente non sono compatibili con i tempi delle emergenze ovvero dello stato di necessità da affrontare.
Questa singolarità di spesa, se ricordiamo bene negli anni scorsi fu all'origine di polemiche nel momento in cui tale procedure venne applicata in alcuni casi a eventi non emergenziali.
Nel 2003 per cogliere gli obiettivi di tutela individuati dalla task force ministeriale per fronteggiare l'epidemia legata alla SARS, si sancì una stretta collaborazione con il Dipartimento emergenze della Protezione Civile, con la nomina di Guido Bertolaso a commissario governativo. Inoltre, l'Istituto Superiore della Sanità (ISS) venne identificato come centro di riferimento per la validazione dei test diagnostici.
Nell'epidemia attuale legata al Coronavirus, ovvero al Covid 19, il Capo Dipartimento della Protezione Civile, Angelo Borrelli, ha assunto su proposta del Ministro della Salute il ruolo di commissario responsabile del coordinamento degli interventi necessari per fronteggiare l'epidemia. Ed ancora l'Istituto Superiore della Sanità come centro di convalida dei test diagnostici e di screening effettuati sul territorio nazionale.
Da notare però, che il Capo Dipartimento presenzia alle conferenze stampa giornaliere insieme a un virologo di riferimento per soddisfare le domande di taglio epidemiologico formulate dai giornalisti. Probabilmente l'assunzione diretta del Ministero della Salute delle operazioni di coordinamento della Sanità attraverso comitati o centri elettivi che avrebbero visto la partecipazione dei rappresentanti delle Regioni e del capo dipartimento Borrelli, sarebbe stato meno impattante mediaticamente sull’opinione pubblica, e maggiormente attagliata alla disciplina sanitaria di emergenza visto che il settore virologico è basato sul micro e non sulle macerie.
Questa riflessione deve condurne a un’altra, cioè quella che deterministicamente non si può escludere che un’emergenza geologica possa sovrapporsi all’emergenza epidemiologica. Rimanendo ai fatti, con queste condizioni d'impegno attuale del Dipartimento della Protezione Civile, ci si chiede se si riuscirebbe a gestire una eventuale situazione generata da un terremoto o da un’eruzione vulcanica dettata dal Vesuvio e dai Campi Flegrei.
Tra l’altro, i comuni del vesuviano ma anche quelli del flegreo, in caso di prodromica emergenza vulcanica, contano sul "contratto" quinquennale stilato con le altre regioni per vedersi garantito il trasporto dei propri cittadini in fuga dalle aree d'incontro a quelle di prima assistenza secondo le regole dei gemellaggi stilati e firmati nei protocolli d'intesa.

Ad esempio, nel caso dei cittadini di Torre del Greco e di Somma Vesuviana o di quelli puteolani di Pozzuoli, la Regione Lombardia in seguito agli accordi siglati, dovrebbe poter garantire il trasporto dalle aree di incontro ubicate fuori zona rossa vulcanica, a quelle di prima accoglienza individuate sul territorio di competenza amministrativa: individuate dove? Nella fattispecie del discorso, parliamo di circa 60.000 cittadini dell'area metropolitana di Napoli.
Ci lascia perplessi nell'attualità un eventuale allontanamento assistito da zona rossa vulcanica a zona rossa epidemica. Eppure le procedure evacuative previste dai piani di evacuazione prevedono proprio questo e occorrerebbe quindi una parola sull'argomento, visto che l'emergenza da coronavirus durerà ancora per un bel po' di tempo. Ovviamente la possibilità statistica che la quiescenza vulcanica s’interrompa proprio in questo periodo o che la terra tremi violentemente è molto bassa ma non assente.
Sarebbe possibile perseguire questa strategia operativa evacuativa in tempi da coronavirus? Se si fossero sapute le destinazioni provinciali lombarde in anticipo e già nei protocolli d'intesa, le valutazioni potevano essere fatte in ragione della definizione delle zone epidemiche rosse e gialle. Abbiamo accennato alla Lombardia, ma lo stesso discorso vale per il Veneto e per l'Emilia Romagna... e forse a seguire per tutte le altre regioni, nessuna esclusa dalle regole del gemellaggio.

Trattandosi di un’emergenza, quella del coronavirus, che si dipana soprattutto nel settore sanitario, il Dipartimento della Protezione Civile deve mantenere strategicamente un alto profilo operativo di riserva semmai dovesse presentarsi la necessità di coordinare interventi classici, diciamo di taglio fisico - energetico, come le alluvioni e i terremoti e le eruzioni, perché sono manifestazioni meno subdole di un virus sconosciuto, ma di forte impatto distruttivo immediato.

Forse nominare commissario per l’emergenza coronavirus un virologo magari dell’Istituto Superiore della Sanità, che operando all’interno di una task force ministeriale e interregionale, avrebbe potuto alleggerire l’organizzazione dipartimentale da una somma d’impegni sarebbe stato l'ideale.

Il Dipartimento della Protezione Civile si muove sulla scorta delle indicazioni provenienti dai vari settori in cui si dirama la commissione grandi rischi di seguito elencati:
- rischio sismico;
- rischio vulcanico;
- rischi meteo-idrologico, idraulico e di frana;
- rischi chimico, nucleare, industriale e trasporti;
- rischio ambientale e degli incendi boschivi.

Come si vede non c’è un settore afferente al rischio epidemiologico, quindi saettare il Dipartimento della Protezione Civile in questa faccenda del coronavirus a nostro avviso è stata una forzatura dei primi momenti, atteso che non ci sono strutture deputate a fronteggiare l’emergenza da virus diverse da quelle sanitarie composte da centri di eccellenza e dall’Istituto Superiore della Sanità. Anche in termini di operatività gli ospedali e le loro organizzazioni fatte di medici e paramedici e ausiliari, sono per analogia i Vigili del Fuoco anti virus. Quindi, un più diretto coinvolgimento del Ministero della Sanità sarebbe stato adeguato anche in termini di commissario delegato all’emergenza, fermo restante il supporto logistico del Dipartimento che in ogni caso sarebbe stato assicurato. Il Dipartimento senz’altro tenta di fare del suo meglio in questa emergenza nazionale, ma francamente ci sembra che risulti un po’ impacciato per difetto di competenza e conoscenza di una disciplina virologica.
Alla luce dell'assenza di politiche di prevenzione del rischio vulcanico e di incompletezza dei piani di evacuazione per il vesuviano e il flegreo, un impegno a questo punto molto serio del Dipartimento sul sanitario, tra l'altro di non breve durata, potrebbe prestare il fianco a un certo vulnus operativo su altri tipi di calamità latenti che costellano ogni angolo della nostra giovane Penisola, a partire da quello sismico e come detto a quello vulcanico tra l'altro in assenza di una efficace pianificazione evacuativa.