sabato 4 gennaio 2014

Giustizia e processo.


“Giustizia: il primo anello del processo” di MalKo
La giustizia è sempre rappresentata come una donna severa e imparziale che della vita non nutre nessun altro interesse se non quello della funzione per la quale è stata solennemente incaricata.  Nella mano destra stringe la spada della fatalità e nella sinistra la bilancia.  Sovente ha sul capo una corona perché forse era una regina che ha conosciuto in egual misura il bene e il male, al punto da essere in grado di pesare minutamente il peso delle colpe di chi è portato al suo cospetto per essere giudicato. Si dice pure che sieda tra due colonne che simboleggiano il solstizio della Terra nel suo orbitare, occupando la parte centrale destinata agli equinozi… davvero un gran bel simbolo di equidistanza nel cammino spaziale che potrebbe essere quello della vita. L’equinozio è il punto astronomico dove le ore di luce sono pari a quelle del buio. Per antica similitudine, fulgore e tenebre, bene e male…
La giustizia non ha il dono dell’onniscienza. Il suo giudizio quindi, si basa su fatti, prove e testimonianze. La giustizia poi, basandosi su leggi scritte dagli uomini, presenta delle difformità globali, in base alle quali si potrebbero subire pene molto diverse dipendenti dalla latitudine di dove si commettono i fatti. Si pensi ad esempio all’adulterio… La lapidazione era ed è ancora la pena prevista in alcune zone del Pianeta. Anche in Italia c’era una discrasia giuridica sull’argomento; poi si è scoperto che le pene non potevano essere inflitte alle sole mogli infedeli, poiché anche i mariti potevano avere un atteggiamento adulterino. La legge è uguale per tutti recita il caposaldo …
Mentre la giustizia divina si avvale dell’infallibile onniscienza del giudice supremo, quella terrena invece, richiede un dibattimento tra difesa e accusa con un giudice terzo che alla fine e come lascia intendere il termine, valuta, pesa, giudica!
La giustizia per essere giusta dovrebbe essere soprattutto veloce. In America dove in alcuni stati vige ancora la pena di morte, non passa inosservato il tempo che passa tra giudizio, condanna ed esecuzione. Il concetto assolutamente condivisibile proferito dai detrattori della pena capitale, è che l’autore di un atroce delitto dopo un certo numero di anni non è più la stessa persona morale. In tal caso si andrebbe a infliggere la pena di morte a un essere umano che con gli anni ha subito cambiamenti interiori, magari molto profondi al punto da essere un individuo completamente diverso ed estraneo all’iniziale personalità violenta.
La pena di morte quindi, sa di barbarie e la troviamo assolutamente ingiustificata in un mondo tra l’altro votato alla tutela della vita. L’ergastolo se tale, è una pena congrua per chi si macchia di delitti atroci.
In Italia non c’è la pena di morte, ma forse neanche la pena ordinaria però. La giustizia arranca ad affermarsi, a causa di una lentezza che porta molti processi a morire nelle sabbie della burocrazia… diciamo giudiziaria, che abbraccia più segmenti dello Stato con una certa incidenza di procedimenti che si dissolvono per raggiunti termini… Se la giustizia fosse giusta, uno vale uno, e i processi non richiederebbero l’indirizzo politico delle priorità.  La giustizia sa tanto di carburatore ingolfato e la regina imparziale invece del bilancino ha il piede poggiato su una stadera, perché di questi tempi solo le grandi cose in certi luoghi hanno un peso in termini d’interesse giudiziario.  Se Berlusconi non fosse Berlusconi, probabilmente avrebbe ragione su molti punti che riguardano la macchina italiana della giustizia…
La sponda americana a proposito di giustizia e velocità di giudizio, ci viene incontro concettualmente attraverso l’arte cinematografica che è quella dei sogni e delle realtà ideali e virtuali. In particolare ci viene in mente un film, con il plateale Sivester Stallone, che rende bene il concetto della giustizia che per essere tale deve essere inflessibile e veloce. Il film è intitolato Judge  Dredd (Il giudice Dredd) .
Se guardate il trailer iniziale, il nostro eroe blocca i malviventi sul fatto enumerando sul posto la serie di reati riscontrati con relativa condanna. Il processo che si compie addirittura sulla scena del crimine, è utopisticamente il massimo della velocità possibile.
Ovviamente la strada per arrivare a una tale concezione della giustizia oggi è pura fantascienza e richiederebbe una diversa connotazione delle forze dell’ordine. Forse un domani, chissà… Intanto però lo spunto hollywoodiano consente una riflessione sull’attualità che è molto burocratica anche in questo campo. In presenza di un reato o di un’indagine arriva sul posto una pattuglia delle compagini deputate all’ordine pubblico: Carabinieri, Polizia ed altre forze previste dal nostro ordinamento istituzionale.  Il loro intervento si traduce sempre in un rapporto di servizio che è alla base dell’instradamento del processo.
La dabbenaggine o la preparazione giuridica degli agenti allora, è quella che fa la differenza, perché i giudici spesso si rifanno per le indagini innanzitutto alla relazione della squadra o della pattuglia che interviene. La nostra impressione ci porta a ritenere che potrebbe crearsi un circuito virtuoso anche nel campo della giustizia, se il personale preposto alle indagini di Polizia avesse un’adeguata formazione giuridica e una capacità di analisi di fatti, luoghi e circostanze, particolarmente professionale. La mediocrità, infatti,  può creare solo ingiustizia o malagiustizia; l’eccellenza invece, giustizia e senso dello Stato. Una storpia e fuorviante relazione d’intervento allora, potrebbe essere addirittura il virus iniziale che fa battere fiacca alle fasi processuali.
Il primo grado del processo… il primo anello, su cui si concatenano l’insieme degli atti e delle azioni susseguenti volte a indirizzare le indagini e l’azione giudiziaria, ritrova una valenza particolare nella relazione di servizio stilata dal maresciallo o dal brigadiere o dall’agente. E’ da lì che molto spesso parte il processo, e non si sa con quale piede…



venerdì 3 gennaio 2014

Il pericolo folla...

Napoli

"Il fattore folla è già un pericolo..." di MalKo
All’indomani del terremoto di Lisbona del 1 novembre 1755, il filosofo Rousseau scrisse che non ci sarebbero state tante vittime se la gente non avesse accalcato le città rinunciando a vivere in un modo più semplice e meglio distribuito in termini di densità abitativa. Ducentocinquanta anni dopo il pensiero è fresco come una rosa… Aveva perfettamente ragione! I nostri pianificatori delle emergenze nei loro calcoli sulle misure di sicurezza devono o dovrebbero tenere in debito conto l’indice di affollamento. All’aumentare di quest’ultimo, infatti, il rischio lievita a volte anche in modo esponenziale.
Uno dei sistemi che ha lasciato aumentare a dismisura la densità abitativa è la diffusione dei grattacieli. Questi alti palazzi hanno la capacità di accogliere centinaia se non migliaia di persone su di una superficie molto ristretta. Lo sapevano bene i terroristi che l’11 settembre 2001 dirottarono alcuni aerei di linea lanciandoli contro le torri gemelle a New York. L’incendio che si sviluppò nel giro di poco tempo, indebolì le possenti strutture di acciaio e cemento che si sbriciolarono seppellendo 2752 persone, tra cui 343 Vigili del Fuoco.
L’affollamento lascia schizzare in alto qualsiasi indice di rischio. Che gli assembramenti facessero testo lo sapevano pure i sovversivi che diffusero il gas sarin nelle affollate gallerie metropolitane di Tokyo o come fecero altri attentatori nella metropolitana di Mosca o in quella di Madrid e Londra con gli esplosivi. Kamikaze si sono lasciati esplodere pure negli autobus, ai mercati e addirittura nel bel mezzo dei cortei funebri. Gli assembramenti insomma sono pericolosi, a prescindere dal motivo e dal luogo della concentrazione. Certamente i danni sono in una certa misura rapportati alla natura del pericolo  che può essere energeticamente rappresentato tanto da fattori naturali (terremoti, eruzioni) che da altri mortalmente  umani, quali le azioni criminali perpetrate con armi meccaniche (bombe), chimiche e anche batteriologiche. La cosa che deve essere chiara al lettore, però, è che anche in assenza di eventi dirompenti o di attentati, il pericolo (una certa energia) è già insita nella folla.
Quindi, che siano stadi, concerti, chiese o moschee  o altri luoghi di ritrovo non c’è differenza. La folla è un rischio potenziale che a volte si carica improvvisamente di atteggiamenti inconsulti che scatenano la micidiale miccia del panico. La moltitudine quando è sotto stress, di solito non ha sentimenti di pietà o logica di calcolo, per questo motivo fa veramente paura.
Il panico è un timore viscerale che sorge improvviso senza mediazione della riflessione e spesso contagia e coinvolge tutta la collettività in una sorta di psicosi comune scatenata magari da una notizia preoccupante, a prescindere da quanto sia vera, cosa tra l’altro che non è possibile verificare in quel  frangente. Quando il panico avvolge la folla, ressa calca e schiacciamenti dalle conseguenze gravissime, diventano allora e purtroppo una costante a qualsiasi latitudine e longitudine.
Lo schiacciamento all’interno della folla avviene per la reciproca compressione dei corpi in posizione verticale e in contatto tra loro o stipati contro muri, ringhiere e altri tipi di ostacoli che ne frenano l’avanzamento e la respirazione.
Nel 2001 in Pakistan, in un tempio nella zona del Punjab, 40 persone persero la vita nella calca generatasi per passare la sacra Porta del Paradiso. Nel 2001 alla Mecca perirono invece 35 persone sempre schiacciate dall’inarrestabile moltitudine. Nel 2002 in Bangladesh, molti poveri si assieparono già nella notte all’esterno di un edificio, dove all’indomani dovevano essere distribuiti abiti a scopo di beneficenza. All’apertura dei cancelli successe l’immancabile ressa e oltre 30 persone rimasero schiacciate. Nel 2004 nella valle di Mina (Arabia Saudita) persero la vita 244 pellegrini, ovviamente sempre a causa della ressa.  Nel 2005 a Bagdad, moltissimi devoti giunti in città per una festa religiosa si accalcarono in una moschea. Ci fu un iniziale attentato con un mortaio (7 morti). La folla fuggì via terrorizzata. Ad arte si sparse la voce che alcuni kamikaze erano mischiati ai fuggitivi. Il panico salì alle stelle e la ressa fu spaventosa con 953 morti e 815 feriti: si contarono alla fine cadaveri in una misura 136 volte superiore rispetto a quelli addebitabili al solo attentato iniziale.
Nel 2010 in un tempio indù a Kunda (India), si riunirono circa quindicimila persone per assistere a una cerimonia sacra tenuta da un guru locale. Chiusero i cancelli per interrompere l’inarrestabile flusso al tempio. Il serpentone di fedeli si trovò addossato alle inferriate con quelli in coda che spingevano. Caddero cancelli e muratura. L’incidente scatenò il panico che lasciò sul terreno oltre settanta morti come bilancio provvisorio e più di duecento furono i feriti. Sempre nel 2010 nel Mali, si tenne una funzione religiosa nella moschea di Timbuctu. Scoppiò anche lì la ressa che lasciò uno strascico di venticinque morti per schiacciamento. Nel 2006 i decessi sempre dovuti alla compressione della folla nei pressi della Mecca furono 345. Nel 1990 persero la vita per pressanti affollamenti 1426 fedeli. Nel 1994 i morti furono 270. Nel 1997 si contarono 343 vittime.  Nel 1998 i pellegrini che perirono calpestati o compressi dalla fiumana umana furono questa volta 119.
Queste sciagure non sono un problema dell’Africa o dell’Asia. Anche allo stadio luogo di ritrovo e di folla si può morire. Parliamo ad esempio del civilissimo Belgio. All’Heysel, gli hooligans nel corso di una partita caricarono i tifosi italiani generando un parapiglia drammatico che cagionò trentanove morti e seicento feriti. A Glasgow in Scozia nel 1971, allo Ibrox Stadium, per la solita ressa morirono 66 persone per asfissia da compressione. Nel 1999 a Minsk in Bielorussia, durante un concerto migliaia di giovani si accalcarono verso il sottopassaggio della metropolitana per ripararsi da un temporale: 54 persone morirono schiacciate. Nel 2006 a Manila nelle Filippine, davanti allo stadio Pasig si ammassarono molte persone per accaparrarsi biglietti utili per partecipare a una trasmissione televisiva a premi. Pare che qualcuno gridò bomba! Morirono 73 persone schiacciate o calpestate dalla folla. Alla Love parade (2010) di Duisburg (Germania), nella calca morirono 19 ragazzi. Nel mese di ottobre 2013, in India su un ponte vicino al tempio di Ratangarh, hanno perso la vita 110 persone schiacciate in una ressa inconsulta scatenatasi per occupare le migliori posizioni all’interno del luogo di culto. In Costa D’Avorio a dicembre 2012, per festeggiare il capodanno si sono contate 60 persone schiacciate dalla folla sgomitante per assistere allo spettacolo dei fuochi d’artificio da buona posizione.
Che l’agente offendente sia di origine umana o naturale non cambia poi il risultato che in termini di danni è sempre altissimo quando in gioco ci sono le folle e soprattutto quelle da record. La formula che riguarda sinteticamente e genericamente il rischio è quella nota:

                  Rischio = Pericolo x Valore Esposto

Il rischio in questo caso sussiste solo quando i due fattori, pericolo e valore esposto, abbiano un valore diverso da zero. Per valore esposto s’intende il numero di essere umani su cui potrebbe abbattersi il pericolo. Il pericolo di solito è rappresentato da una forma energetica termica o meccanica o anche un agente chimico,batteriologico o radiologico. Quello che si vuole dimostrare è che anche in assenza di un pericolo esterno, il valore esposto ha in se un potenziale elemento di pericolo interno, perché le folle incontrollate hanno energia meccanica sufficiente a mietere vittime. La parte di folla stretta a un muro, una ringhiera o altro elemento non elastico, subisce una forza finale (schiacciamento) che potrebbe superare le centinaia di chilogrammi lineari. La respirazione sarebbe a questo punto impossibile perchè ai toraci non sarebbe più consentito l’espansione. Stessa sorte ricadrebbe sulle persone che cadono al suolo e che sarebbero calpestate con superfici di contatto inferiore e quindi danni maggiormente profondi anche in termini di trauma e di respirazione.
Secondo questa tesi, la formula del rischio andrebbe allora riscritta in tutti i casi in cui si formino folle:

           Rischio = Pericolo x Pericolo/n°Valore Esposto 

Nei manuali dei vigili del fuoco già in ambiente chiuso viene dato un significato agli assembramenti maggiori di 25 unità, prestabilendo il senso dell’apertura delle porte verso l’esterno, e così via con altre misure di prevenzione con numeri di persone superiori alla cifra indicata.
Non abbiamo però un indice limite di affollamento per le aree urbane. Dovrebbero pensarci gli architetti nella formulazione analitica della città ideale rapportata alle caratteristiche territoriali. Potrebbe essere un tema da tesi di laurea: lanciamo la proposta. Ovviamente con il nostro discorso sulle folle volevamo accedere a un certo livello discorsivo per introdurre il problema delle aree molto urbanizzate ricadenti tra l’altro in ambiti a rischio come quello vulcanico. Ai nostri lettori non sarà sfuggito il dato per niente rassicurante della densità abitativa che si registra in alcuni comuni della zona rossa caratterizzata dal rischio Vesuvio, tra cui quelli di Portici e San Giorgio a Cremano. Rispettivamente il primo e terzo comune italiano per densità abitativa con numeri che superano largamente gli undicimila abitanti per chilometro quadrato con ottimi piazzamenti anche in ambito europeo. In questa zona geografica però, col vulcano a rischio formazione nubi ardenti, più che di folla è il caso di dire che siamo di fronte a una vera autentica follia…