Il Vesuvio è un apparato vulcanico che ha la capacità di eruttare in forme diverse, come quella effusiva, esplosiva o anche mista secondo intervalli poco quantificabili. Ovviamente nel primo caso la produzione e quindi lo scorrere della lava non genera pericolo per le popolazioni: è lenta nel suo incedere e si ha tutto il tempo necessario per allontanarsi. Nelle eruzioni esplosive pliniane e sub pliniane invece, la pericolosità per le genti esposte è veramente alta a causa della formazione delle colate piroclastiche.
Questo fenomeno particolarmente distruttivo, deriva in genere dal collasso della colonna eruttiva che, rovinando sui fianchi del vulcano da notevole altezza, forma delle valanghe di materiale piroclastico decisamente ardente (circa 500° C.). Questi ammassi vorticosi che scorrono e rotolano dal pendio montuoso a velocità molto elevata, acquistano energia cinetica capace di spazzare via qualsiasi ostacolo incontrino sul proprio cammino per non pochi chilometri.
Le colate piroclastiche distrussero Pompei nel 79 d.C. e la pioggia di cenere e lapilli seppellì la ridente cittadina romana che fu poi riscoperta a tratti e solo nel 1748. In questi luoghi ma anche ad Ercolano, sono stati ritrovati scheletri di uomini e animali in alcuni casi con i crani esplosi letteralmente per effetto dell’evaporazione repentina della massa biologica.
Alcune tecniche consistenti nel colare gesso nei vuoti rinvenuti negli ammassi di cenere e lapilli del pompeiano, hanno restituite forme umane (vedi copertina) nella loro interezza espressiva nel momento della morte. Fisionomie che danno ancora oggi il polso della tragedia vulcanica che si consumò quasi duemila anni fa, suscitando un sentimento di pìetas nei visitatori del parco archeologico di Pompei.
La storia geologica dell’area vulcanica vesuviana parte da molto lontano, mentre quella che caratterizza il complesso del Somma – Vesuvio è ascrivibile a circa 25.000 anni fa.
Cosa sia avvenuto negli ultimi 20.000 anni ce lo dice questa scaletta pubblicata sul sito dell’Osservatorio Vesuviano. Come si vede l’ultima eruzione pliniana è quella di Pompei nel 79 d.C. mentre la più recente sub pliniana si ebbe nel 1631. Nel 1906 la più vivace eruzione mista del secolo, e nel 1944 l’ultima stromboliana che ha riportato l’apparato vulcanico del Vesuvio in una condizione di quiescenza che dura tutt’oggi.
La prossima eruzione non è possibile datarla, così com’è impossibile stabilire l’intensità eruttiva che la caratterizzerà. Di fronte ai limiti della previsione dell’evento vulcanico, per evitare una catastrofe occorrerebbe dare ampio spazio alla prevenzione del rischio vulcanico almeno fino a quando la previsione non acquisirà valore deterministico. Occorrerebbero allora interventi strutturali e non strutturali, capaci di mitigare le possibili conseguenze del fenomeno eruttivo che un giorno si manifesterà e che sarà pieno di incognite.
La logica avrebbe voluto che si fosse adottato come riferimento per i piani d’emergenza un’eruzione pliniana, che è la massima intensità conosciuta, per dare un limite perimetrico garantista alla zona rossa da evacuare all’occorrenza e preventivamente. La protezione civile ha preferito assumere un’eruzione intermedia come massimo stile eruttivo futuribile, e quindi la zona rossa risultando più piccola genera qualche apprensione in più, di contro offrendo facilitazioni alla stesura dei piani di evacuazione, più contenuti territorialmente, e che in ogni caso tardano a completarsi.
Nell’attualità il rischio di una catastrofe vulcanica è l’ultimo dei problemi nazionali, perché l’emergenza epidemiologica causata dal coronavirus covid 19 in tutte le regioni italiane, ha catturato totalmente l’attenzione istituzionale e popolare.
La cosa che turba del pericolo epidemiologico, sono le dimensioni impalpabili e invisibili del virus, ma anche gli effetti che determina sul soggetto contaminato che sono molto variabili da individuo a individuo in ragione della carica virale e dalle condizione di salute di base: ergo più a rischio gli anziani. Se contagiati si può essere totalmente asintomatici o anche gravemente ammalati. Il numero dei sintomatici guariti è alto e la mortalità è bassa, ma non tanto da rassicurare chicchessia…quì i numeri.
Il coronavirus in ogni caso è contagioso abbastanza da poter mettere in crisi il sistema di accoglienza ospedaliero nazionale che non ha risorse illimitate nel campo della terapia intensiva, sia in termini di personale specializzato che di posti letto con tecnologie dedicate. Quindi, a fronte di ristrettezze di postazioni, per i numeri in gioco le politiche di contenimento della diffusione del virus diventano una assoluta necessità per mantenere almeno un circolo virtuoso di alternanza, che garantisca un saldo di pareggio tra ammalati bisognosi della terapia intensiva e i guariti o gli stabilizzati che lasciano il posto ad altri.
L’allarme è altissimo perché non ci sono cure e vaccini specifici in un contesto come dicevamo di carenza di apparecchiature per l'aiuto respiratorio. Addirittura si biascica tra smentite e qualche conferma, che si potrebbe essere costretti se lievitano i numeri dei contagiati gravi, a mettere in discussione il diritto alla salute a favore dei giovani che hanno maggiori chance di guarigione e una maggiore aspettativa di vita rispetto ai vecchi che si avvicinano al declino. Qualche intervistato esprimeva con enfasi questo concetto da Dio, dimenticandosi che c’è sempre qualcuno più giovane di un altro a prescindere… Occorre poi dire che lungo lo stivale la qualità e la quantità dei servizi ospedalieri, ahimè e generalizzando, dipendono un po’ dalla latitudine con tutto quello che ne concerne in termini di quantificazione del rischio che a parità di virus aumenta...
Da un punto di vista tecnico, il rischio da coronavirus è alto perché gli effetti del microscopico ospite potenzialmente non cambiano in ragione della posizione geografica, tant'è che tutto il territorio nazionale è stato classificato come zona rossa onde limitare le attività, gli spostamenti e la vita sociale di gruppo perchè facilitano i contagi.
Il discorso è puramente analitico perché nel nostro mondo globalizzato esistono spostamenti e interazioni anche al di la dei confini nazionali che non possono essere off limits in entrata e uscita per lungo tempo. Quindi determinate azioni per contenere e confinare ai limiti dell’estinzione il dannoso virus, hanno valore solo se l’impegno è su scala continentale e quindi globale. Non è pensabile isolarsi da un sistema planetario aperto, e quindi bisogna tenere alta la guardia fino a quando nel mondo non si spegneranno tutti i focolai epidemici. Si teme molto l’Africa perché è un continente eterogeneo difficile da classificare, dove potrebbe essere molto difficile determinare finanche le zone rosse epidemiche, con una popolazione che per mille motivi tenterà di migrare per sfuggire alla fame, alle guerre e perché no, anche al democratico coronavirus, che in condizione di precariato igienico sanitario troverebbe terreno fertile per diffondersi.
Il rischio vulcanico è puntiforme, lo si conosce e la sua pericolosità è inversamente proporzionale alla distanza che sussiste dalla sorgente eruttiva. Questa caratteristica lo rende meno catastrofico del rischio epidemico. Il coronavirus è un potenziale pericolo che mantiene inalterata la sua capacità di generare sintomi a prescindere dal luogo geografico in cui si esprime. Per capire concetto e differenze, il Vesuvio possiamo rappresentarlo come un unico grande ordigno i cui effetti meccanici sono rapportati alla distanza di esposizione. Il coronavirus invece, è una sorta di campo minato dove tra i primi passi e gli ultimi, nonostante le differenze chilometriche, non c’è differenza in termini di pericolosità potenziale. Ovviamente e per rimanere nel solco di questo esempio, l’isolamento sociale aumenta le maglie libere del campo minato, e quindi diminuisce le possibilità di incappare nella mina virale i cui effetti in alcuni casi sono preoccupanti.
Nei comitati scientifici della commissione grandi rischi non sembra che sia stato previsto un rischio epidemiologico pandemico: c'è da scommettere che qualcosa cambierà per il futuro, e che nelle politiche di resilienza e sopravvivenza si contempleranno oltre alle variazioni e ai cambiamenti climatici, anche rischi rarissimi ma non alienabili…
Quando sarà passato l’emergenza coronavirus, bisognerà riaprire con molto serietà il capitolo della sanità dimenticata che ha caratterizzato le politiche dell'ultimo decennio, per capire quali settori sono stati privilegiati economicamente in danno dei presupposti dell’articolo 32 della costituzione, che teoricamente prevede il diritto alla salute senza nessuna menzione sull'età dei bisognosi… La democrazia e i diritti non sono scontati in questa società del business, ma se i cittadini e i partiti politici e i movimenti d'opinione perdono la capacità di analisi e la forza di indignarsi, saremo alla mercé degli eventi troppo spesso valutati a monte secondo le regole dei costi benefici che hanno un senso solo in assenza di alternative.
Le conclusioni sono che il rischio epidemico è superiore al rischio vulcanico innanzitutto perché il primo è sconosciuto mentre il secondo è noto pur se disatteso nelle soluzioni.
Il peggio che ci può capitare oggi? Un accavallamento tra emergenza epidemica e sismica o vulcanica. Soprattutto quella vulcanica che metterebbe in cammino centinaia di migliaia di persone pure su mezzi collettivi, senza neanche una utilissima mascherina che stentano ad ammettere che servirebbe ma non ce ne sono. L'equipe cinese sbarcata a Fiumicino indossava mascherine oronasali e ovviamente non perchè sono tutti contagiati...
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