2017 - Vesuvio post incendio |
Vesuvio: il grande rogo… di MalKo
Ciò
che è successo sul Vesuvio in termini di incendi è un esempio concreto di cosa
significhi la disorganizzazione nella gestione delle emergenze. Fiamme che già
l’anno scorso avvilupparono il vulcano più famoso del mondo, senza per questo
insegnare nulla, ma proprio nulla a coloro che pur rivestendo delle cariche
importanti nella gestione amministrativa e operativa del territorio, poco o
niente hanno fatto per correre ai ripari dal subdolo pericolo fuoco, né tantomeno
hanno abbracciato la prevenzione come strada maestra per fronteggiare le
catastrofi ambientali di matrice antropica.
Il
fenomeno dell’autocombustione non ci appartiene perché un foglio di carta per
bruciare ha bisogno di 230°C. La legna necessita di almeno 300°C. Per quanto
rovente possa essere quest’estate senza piogge, ancora non siamo arrivati alle
temperature di oltre 400°C. che si registrano sulla superficie del pianeta
Venere. Quindi, l’aiutino per appiccare incendi giocoforza vede la
preponderante e malefica mano dell’uomo.
Per
agire di prevenzione su di una zona che s’intende proteggere dal rischio
incendio boschivo, come dovrebbe essere quella di un parco nazionale come il Vesuvio,
oggi definibile parco metropolitano o cittadino per la profonda conurbazione
che lo circonda, innanzitutto è necessario dotarsi di strumenti a rapida
rilevazione del fumo o del calore. Parliamo quindi di telecamere che operano
sulla frequenza del visibile e sugli infrarossi.
Se
non si vogliono adottare sistemi di telerilevamento, occorre sostituire le
telecamere con l’occhio umano, cioè affidare compiti di vigilanza a un certo
numero di addetti armati di binocolo e telefono o radio, magari posizionati su
torrette ubicate in luoghi strategici del territorio.
Un
altro sistema ancora, che potremmo definirlo dinamico e interattivo, consiste
nell’impiegare squadre antincendio che effettuino servizio di ronda non
cadenzati sui sentieri da proteggere, utilizzando mezzi fuoristrada, tipo jeep
o pickup attrezzati per estinguere eventuali principi d’incendio sul nascere.
Quale
di questi sistemi sia stato applicato all’interno del Parco Nazionale del
Vesuvio non lo sappiamo, ma la scoperta di pompose ville abusive costruite nel perimetro
protetto, così come lo scarico di rifiuti ed elettrodomestici e ancora di
calcinacci disseminati in ogni dove, non depongono a favore di una efficace
opera di controllo del territorio. E se non si controlla il territorio,
vandalizzano o rubano le telecamere semmai s’installano, oppure rapinano le
vedette alla stregua di alcuni episodi che hanno visto vittime gli agricoltori
della zona.
I
motivi per i quali l’arcinoto vulcano sia diventato una torcia insieme ai
versanti acclivi del Monte Somma possono essere veramente tanti. Generalmente
la siccità e quindi il fogliame e il sottobosco secco, sono terreno fertile per
l’azione colposa dell’uomo. La cicca buttata via dall’auto in corsa o durante
un’escursione a piedi, può essere innesco per le fronde rinsecchito e
minute. C’è anche chi appicca furtivamente
il fuoco ai cumuli di rifiuti resi maleodoranti dalla calura estiva, senza
rendersi conto che le fiamme possono dilagare attraverso le faville portate via
dal vento, oppure assumere sul posto stesso una virulenza tale da diventare incontrollabili.
C’è
poi la parte spiccatamente dolosa degli incendi, che potrebbe essere legata
all’industria dell’antincendio e della riforestazione. Un’ipotesi raccapricciante
per la verità, che necessita di prove precise e documentabili. In altre parti
si appicca la boscaglia per dispetto; certe volte invece, taluni danno fuoco
alla macchia improduttiva per
generare pascolo o altre piante che danno frutti monetizzabili, o anche per favorire
la crescita degli asparagi secondo una convinzione piuttosto diffusa tra i
cercatori delle appetitose liliaceae.
E
ancora c’è chi dà fuoco alla macchia per rendere una determinata zona
inedificabile per assicurarsi il panorama, oppure per esprimere un malcontento
per la mancata concessione del condono edilizio. Una sanatoria in realtà che in
questi comprensori soggetti al pericolo vulcanico dovrebbe essere tecnicamente inapplicabile,
perché lo Stato non può, ovvero non potrebbe cadere nel ridicolo sanando
residenze abusive in una zona (rossa), dallo stesso Stato definita ad alto
rischio vulcanico per la possibilità di essere invasa dalle micidiali colate
piroclastiche. Altri dissensi potrebbero provenire dalle operazioni
amministrative di confisca delle case abusive da acquisire poi al patrimonio
disponibile dello Stato. Una proposta regionale (Campania) impugnata
dal governo, prevede infatti di risolvere i problemi di sanatoria togliendo amministrativamente
la proprietà all’abusivo facendolo così diventare affittuario pur se dimorante
su un cratere avventizio fumante…
L’anno
scorso i piromani hanno attaccato prevalentemente il territorio di Terzigno: è
un indizio. Questa località è nota per
l’abusivismo edilizio e per la discarica ex cava Sari ubicata all’interno del
Parco Nazionale del Vesuvio ai confini con Boscoreale. Alcuni anni fa ci fu una
querelle violenta tra le istituzioni capeggiate da Bertolaso e la popolazione
che espresse tutto il suo dissenso alla spregiudicata iniziativa governativa. Tutto
nacque a causa di una improvvida decisione di un amministratore di rango
terzignese, che consentì o comunque favorì o comunque non si oppose alla
realizzazione di una megadiscarica sui territori di Terzigno ricadenti nel
perimetro del parco nazionale Vesuvio. Un invaso che all’inizio emanava un
olezzo che a definire rivoltante era puro eufemismo. Per mitigare rivolta e
atti vandalici, il commissario ai rifiuti Bertolaso fu costretto ad usare pugno
duro ma soprattutto odorizzanti aspersi a larga mano e tecniche rapide di
ricoprimento dei rifiuti su cui volavano a cerchio paffuti gabbiani.
Riempita
la discarica con un milione di metri cubi di spazzatura, il metano prodotto
dalla decomposizione dei rifiuti viene bruciato in un contiguo impianto di termovalorizzazione
(biogas). Un unicum che non aveva e forse ancora non ha, un piano di emergenza per
fronteggiare una possibile fase di allarme vulcanico.
Intanto
hanno notato che il registro delle malattie oncologiche del comprensorio segna
un incalzare delle patologie incurabili subito associate dalla popolazione, a
torto o a ragione, ai veleni accumulati nei terreni e nell’aria. Ogni famiglia dicono,
annovera un caso letale alla stregua delle più classiche epidemie influenzali…
Non
è difficile ipotizzare che chi ha dovuto registrare nel proprio nucleo
familiare un lutto dovuto alla vicinanza col sito di stoccaggio rifiuti, che in
realtà si chiama ahimè e nella sua interezza Vesuvio, possa aver coltivato una
sorta di desiderio di vendetta o di giustizia estrinsecata poi con la volontà
di bruciare quel male assoluto, identificato nelle zone pedemontane dove
riposano bare di rifiuti interrate in
fosse abilmente preparate dagli escavatori e poi mimetizzate con lo stesso lapillo
vulcanico e, quindi, introvabili.
Il
fuoco è anche un elemento di stizza verso un Vesuvio che per mille ettari è circoscritto
dalle reti che vietano il transito pedonale all’interno dell’area della riserva
Tirone Alto Vesuvio. Un’oasi naturalistica
di protezione forestale che sopravvive all’interno dei 7000 ettari del parco
nazionale Vesuvio. Una zona strategica per la biodiversità, protetta e
inaccessibile se non dai bus turistici a trazione integrale che si muovono accedendo
dalla strada Matrone di Boscotrecase, grazie a potenti motori diesel. Un connubio che prende a calci in faccia qualsiasi
trattato protezionistico della natura… I sussulti delle potenti carrozzerie
rinforzate infatti, fanno addirittura impazzire i sismografi dell’Osservatorio
Vesuviano posti lungo il versante meridionale del vulcano.
Un
po’ di anni fa, all’ennesimo incendio localizzato a Boscotrecase (Vesuvio), ci
trovammo quasi a ridosso del focolaio avendo così la possibilità di calcolare i
metri quadrati di vegetazione in fiamme e il numero di lanci effettuati dai Canadair
in azione. Orientativamente, per spegnere un incendio ad oggetto una
vegetazione folta e di media altezza e alberata, calcolammo con grande
approssimazione che occorrevano circa 175 litri d’acqua a metro quadrato.
Quando la superficie interessata dalle fiamme comprende combustibile (alberi e
macchia mediterranea) che si erge in verticale, occorre considerare la
superficie arborea come una superficie particolarmente ondulata… Bisogna anche considerare
come variante peggiorativa dell’azione antincendio, che l’acqua sui suoli
vulcanici non ristagna e non scivola: bensì sprofonda letteralmente. Essendo la legna un buon
isolante poi, spesso si riaccende per migrazione del calore in superficie,
esattamente come succede per i pneumatici.
Per
poter spegnere un incendio su zone rocciose e miste e acclivi come quelle
vesuviane, occorrono certamente i mezzi aerei che portano l’acqua lì dove non
ci sono risorse di questo genere, e sul Vesuvio non ci sono…Purtuttavia è anche
necessaria un’opera di bonifica terrestre per scongiurare le riaccensioni.
Occorrono strategie interventistiche quindi, avendo cura di aspettare e
fronteggiare il fuoco su un luogo magari meno acclive oppure dove la
vegetazione è meno densa e bassa, per dare il colpo di grazia alle fiamme già abbattute
dai lanci effettuati da aerei ed elicotteri. A terra si opera con atomizzatori
spallabili o nebulizzatori e pale o decespugliatori e motoseghe per creare ove
necessario una zona d’attesa spoglia.
Gli
aerei Canadair (CL-415), hanno una capacità di carico di circa 5000 litri d’acqua
che carpiscono scivolando con la pancia sulle distese marine o di laghi
abbastanza ampi e larghi da consentire il successivo decollo a pieno carico
dell’aeromobile.
elicottero AB 412 Vigili del Fuoco |
Gli Eriksson s64f sono anch’essi elicotteri (sembrano ragni), ma con una grande capacità di carico, che nell’antincendio boschivo significa poter aspirare e trasportare e poi sganciare sulle fiamme ben 10.000 litri d’acqua. Gli elicotteri però, occorre ricordarlo, hanno ingenti costi d’esercizio.
Se il fronte delle fiamme rasenta invece una sede stradale, i camion antincendio soprattutto a trazione integrale, sono insostituibili per intervenire con i naspi e le manichette anche se l’incendio è lontano alcune centinaia di metri di distanza dal veicolo.
In tutti i casi, la possibilità di approvvigionamento del prezioso liquido (vasche o cisterne o pozzi) è alla base del sistema antincendio. Lo stesso dicasi dei viali tagliafuoco e dei sentieri carrabili utilizzabili dai fuoristrada. Così come le vedette antincendio e le telecamere e i divieti e i controlli, sono tutti elementi che possono essere messi in campo attraverso un’attenta pianificazione preventiva per la lotta agli incendi boschivi. I tavoli strategici non si possono organizzare quando il fuoco sul Vesuvio è in una fase di disastro ambientale… Non si possono stipulare convenzioni con i Vigili del Fuoco alcuni giorni dopo l’immane rogo.
La condizione di proliferazione degli incendi boschivi ancora in una fase acuta nel meridione d’Italia, necessita di un sistema di ronde e di vigilanza e di una organizzazione antincendio ben lubrificata, almeno fino a quando le piogge autunnali non renderanno poco efficace l’azione dei vandali incendiari, tanto sul Vesuvio quanto su altri rilievi e colline che punteggiano il nostro panorama mediterraneo.
Per concludere occorre prendere coscienza che sul famoso vulcano c’è bisogno che lo Stato faccia sentire la sua presenza, perché è un territorio appetibile tanto dal business quanto dal malaffare. Il Ministro Galletti incominci ad approfondire le varie anime controverse che esistono negli oltre 7000 ettari di parco nazionale del Vesuvio, il cui cuore vegetale è caratterizzato dai circa 1000 ettari di riserva naturale forestale di protezione chiamata Tirone Alto Vesuvio diventata terra di transito per i bus turistici.
Si verifichino tutte le autorizzazioni di servizi vari e di ristoro e di trasporto per ripulire il vulcano più famoso del mondo da una strana patina gelatinosa che sembra avvolgerlo…ripulirlo anche materialmente dall’immondizia aiuterebbe pure la repressione degli incendi, dando così decoro a un vulcano che nella sua ricca corona di base porta i segni del passaggio del tempo e dei popoli, ad iniziare dall’età del bronzo come testimoniano orme di piedi in fuga impresse sugli strati di cenere vulcanica databili a 3800 anni fa.
Si verifichi che sul Vesuvio non esistano spazi di extraterritorialità, che non sia una terra di conquista e di abusi e soprusi, perché il terrorismo ambientale perpetrato con gli incendi, potrebbe anche essere una illegale pratica per richiamare l’attenzione istituzionale su di un territorio mestamente lasciato a se stesso, cannibalizzato dalla politica dell’abbandono e dei mancati controlli e delle discariche che ogni tanto emergono come reperti ripugnanti dell’indicibile.
Articolo riallineato il 05.08.2017
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